invano. E alle volte si era fatto patto tra noi, ch’egli mi leggerebbe un’ora delle Mille et une nuit, con che io sentissi poi dieci minuti di
Fra questi due abati, di cui l’uno mi sollevava dallo studio con la musica, l’altro mi dava al diavolo col Francese, passai quasi tre mesi, deliziosissimi pel gran raccoglimento, e preziosi per me perchè mi servirono per così dire, a dissodare il mio povero intelletto, e disserrarmi tutte le facoltà dell’apprendere, che mi s’erano oltre modo indurite, per quei dieci anni continui d’incallimento nell’ozio il più marcido. Ma i progressi con tutto ciò, o erano nascosti, e lentissimi, o nulli. Mi posi subito a tradurre in prosa italiana, e per quanto poteva con modi italiani, le mie due tragedie, ed elle rimasero così una cosa anfibia, e peggiore. Ma pure dovendosi poi far versi quando gli avrei saputi fare, mi conveniva pure far versi italiani di pensieri italiani, e non di pensieri francesi; Cleopatra che mi era convenute rifare intere in Francese, perchè m’era impossibile di altrimente esprimere i miei giusti sensi; scene che al mio censore tragico e non pedantesco, con la lor vanità che par persona, trionfano di molti altri in cui vi sian gemme legate in false anella.
Tornato in Torino, tutto quel rimanente dell’anno lessi con una tenacità avendo allora; e quella difficoltà estrema, che molte volte non superai, mi insegnò pure a vincerne molte. Dopo Dante il Petrarca, e fu quello che mi diede più pena ad intenderlo; e quindi minor diletto, se non a luoghi: perchè il diletto estremo nasce dal ben intenderlo; e pochi lo sviscerano davvero. Cacciatami in corpo piuttosto un’indigestione, che una quintessenza di questi quattro sommi, dovendomi pur dare al verso sciolto, mi fu consigliata la Tebaide di Stazio, e con avidità somma la lessi, e postillai, poi l'Ossian del Cesarotti e questi furono i versi sciolti che mi colpirono veramente, e che mi parvero con poche modificazioni un eccellente modello pel verso di dialogo. Alcune tragedie nostre che volli leggere, cercando pur d’impararci, mi cadevan dalle mani, lascio il resto, per la languidezza, e trivialità, e lunghezza dei modi, e del verso. Tra quelle come men cattive, lessi pure e postillai le 4 traduzioni del Paradisi dal Voltaire; e la Merope del Maffei, che a luoghi mi piacque assai più, ma che pure mi lasciava circa alla locuzione tanto da desiderare; e mi andava domandando a me stesso; perchè questa lingua divina così maschia, e breve, e feroce in Dante, divien ella così sbiadita ed eunuca nel dialogo di queste tragedie? certo non dev’essere per colpa sua.
Il buon Paciaudi frattanto, ch’io vedeva con altri letterati assai spesso, mi consigliava saviamente, a non metter da parte la prosa; che pure è tanto utile anch’essa pel verso: e mi ricordo che un giorno portatomi il Galateo, io che da ragazzo l’aveva come tutti facciamo mal letto e poco intendendolo, ci avea già senza avvedermene un