Transcription Transcription des fichiers de la notice - Firenze, BML, ms. «Alfieri 13» Alfieri, Vittorio post 1776 chargé d'édition/chercheur Monica Zanardo, Università di Padova / Institut des textes et manuscrits modernes, CNRS-ENS ; projet EMAN (Thalim, CNRS-ENS-Sorbonne nouvelle). PARIS
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Florence, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. «Alfieri 13»
Italien

invano. E alle volte si era fatto patto tra noi, ch’egli mi leggerebbe un’ora delle Mille et une nuit, con che io sentissi poi dieci minuti di Racine. Io era tutto orecchi alle stranezze della prima lettura, e mi addormentava poi al suono dei bellissimi versi del Tragico; cosa di cui l’Aillaud arrabbiava, e mi vituperava con ragione; ma non ho mai potuto patir versi francesi, nè quando non sapea cos’è verso, nè dopo che credo di saperlo.

Fra questi due abati, di cui l’uno mi sollevava dallo studio con la musica, l’altro mi dava al diavolo col Francese, passai quasi tre mesi, deliziosissimi pel gran raccoglimento, e preziosi per me perchè mi servirono per così dire, a dissodare il mio povero intelletto, e disserrarmi tutte le facoltà dell’apprendere, che mi s’erano oltre modo indurite, per quei dieci anni continui d’incallimento nell’ozio il più marcido. Ma i progressi con tutto ciò, o erano nascosti, e lentissimi, o nulli. Mi posi subito a tradurre in prosa italiana, e per quanto poteva con modi italiani, le mie due tragedie, ed elle rimasero così una cosa anfibia, e peggiore. Ma pure dovendosi poi far versi quando gli avrei saputi fare, mi conveniva pure far versi italiani di pensieri italiani, e non di pensieri francesi; cosa, di cui mi era già toccato di provarne il danno: in alcune scene intere di Cleopatra che mi era convenute rifare intere in Francese, perchè m’era impossibile di altrimente esprimere i miei giusti sensi; scene che al mio censore tragico e non pedantesco, C[ont]e Agostino Tana erano sembrate bellissime, una tra l’altre d’Antonio ed Augusto, e che quando poi vennero a maturarsi ne’ miei versacci italiani slombati, facili, e sonanti, rimasero cosa men che mediocre. Tanto è vero che in Poesia l’abito fa la metà del corpo, e spesso fa il tutto; tanto che alcuni versi con la lor vanità che par persona, trionfano di molti altri in cui vi sian gemme legate in false anella. E questa fu la crudelissima e feroce battaglia in cui dovei passare almeno i due primi anni della mia vita letteraria, a cacciare sempree le forme, e le parole Francesi; a spogliare per così dire le mie idee, e rivestirle di nuovo sott’altro aspetto; fatica indicibile, ingratissima, e da ributtare chiunque avesse avuto, ardisco dirlo, una fiamma minor della mia. Mi posi, dopo quella traduzione, a leggere regolatamente tutti i nostri poeti, e postillarli leggendoli; non di parole, ma di tratticelli più o men replicati, secondo che più mi colpivano i diversi lor passi. Cominciai dal Tasso, che non avea mai aperto fino a quel punto. Leggeva con un’attenzione, ch’era tanta che si consumava per se stessa; onde dopo dieci stanze non sapea più quel che avessi letto, ed era più stanco che se l’avessi fatte io. A poco a poco mi feci pure e l’occhio e la mente a quel faticosissimo leggere, e tutto lo lessi postillandolo. Dopo quello, l’Ariosto, su cui feci lo stesso, e che o per esser più facile, o per averne letto in gioventù, o per la fatica durata sul Tasso, me ne costò assai meno.

Tornato in Torino, tutto quel rimanente dell’anno lessi con una tenacità avendo allora; e quella difficoltà estrema, che molte volte non superai, mi insegnò pure a vincerne molte. Dopo Dante il Petrarca, e fu quello che mi diede più pena ad intenderlo; e quindi minor diletto, se non a luoghi: perchè il diletto estremo nasce dal ben intenderlo; e pochi lo sviscerano davvero. Cacciatami in corpo piuttosto un’indigestione, che una quintessenza di questi quattro sommi, dovendomi pur dare al verso sciolto, mi fu consigliata la Tebaide di Stazio, e con avidità somma la lessi, e postillai, poi l'Ossian del Cesarotti e questi furono i versi sciolti che mi colpirono veramente, e che mi parvero con poche modificazioni un eccellente modello pel verso di dialogo. Alcune tragedie nostre che volli leggere, cercando pur d’impararci, mi cadevan dalle mani, lascio il resto, per la languidezza, e trivialità, e lunghezza dei modi, e del verso. Tra quelle come men cattive, lessi pure e postillai le 4 traduzioni del Paradisi dal Voltaire; e la Merope del Maffei, che a luoghi mi piacque assai più, ma che pure mi lasciava circa alla locuzione tanto da desiderare; e mi andava domandando a me stesso; perchè questa lingua divina così maschia, e breve, e feroce in Dante, divien ella così sbiadita ed eunuca nel dialogo di queste tragedie? certo non dev’essere per colpa sua.

Il buon Paciaudi frattanto, ch’io vedeva con altri letterati assai spesso, mi consigliava saviamente, a non metter da parte la prosa; che pure è tanto utile anch’essa pel verso: e mi ricordo che un giorno portatomi il Galateo, io che da ragazzo l’aveva come tutti facciamo mal letto e poco intendendolo, ci avea già senza avvedermene un