uno o più tratticelli perpendicolari ai versi, per accennare a me stesso se più o meno mi andassero a genio quei pensieri, o quelle espressioni, o quei suoni. Ma trovando a bella prima Dante riuscirmi pur troppo difficile, cominciai dal Tasso, che non avea mai neppure aperto fino a quel punto. Ed io leggeva con sì pazza attenzione, volendo osservar tante e sì diverse e sì contrarie cose, che dopo dieci stanze non sapea più quello ch’io avessi letto, e mi trovava essere più stanco e rifinito assai che se le avessi io stesso composte. Ma a poco a poco mi andai formando e l’occhio e la mente a quel faticosissimo genere di lettura; e così tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi l’Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti me gli invasai d’un fiato postillandoli tutti, e v’impiegai forse un anno. Le difficoltà di Dante, se erano istoriche, poco mi curava di intenderle; se di espressione, di modi, o di voci, tutto faceva per superarle indovinando; ed in molte non riuscendo, le poche poi ch’io vinceva mi insuperbivano tanto più. In quella prima lettura io mi cacciai piuttosto in corpo un’indigestione che non una vera quintessenza di quei quattro gran luminari; ma mi preparai così a ben intenderli poi nelle letture susseguenti, a sviscerarli, gustarli, e forse anche rassomigliarli. Il Petrarca però mi riuscì ancor più difficile che Dante; e da principio mi piacque meno; perchè il sommo diletto dai Poeti non si può mai estrarre, finchè si combatte coll’intenderli. Ma dovendo io scrivere in verso sciolto, anche di questo cer-
poi. Debbo dire pel vero, che codesto
Tanto è pur vero che in ogni poesia il vestito fa la metà del corpo, ed in alcune (come nella Lirica) l’abito fa il tutto: a segno che alcuni versi «Con la lor vanità che par persona» trionfano di parecchi altri in cui «Fosser gemme legate in vile anello.» E noterò pure quì, che sì al P[adr]e Paciaudi, che al C[ont]e Tana, e principalmente a questo secondo, io professerò eternamente una riconoscenza somma per le verità che mi dissero, e per avermi a viva forza fatto rientrare nel buon sentiero delle sane lettere. E tanta era in me la fiducia in questi due soggetti, che il mio Destino letterario è stato interamente ad arbitrio loro; ed avrei ad ogni lor minimo cenno buttata al fuoco ogni mia composizione che avessero biasimata, come feci di tante rime, che altre correzione non meritavano. Sicchè, se io ne sono uscito Poeta, mi debbo intitolare, Per grazia di Dio, e del Paciaudi, e del Tana. Questi furono i miei Santi Protettori nella feroce continua battaglia in cui mi convenne passare ben tutto il primo anno della mia vita letteraria, di sempre dar la caccia alle parole e forme francesi, di spogliare per dir così le mie idee per rivestirle di nuovo sotto altro aspetto, di riunire in somma nello stesso punto lo studio d’un uomo maturissimo con quello di un ragazzaccio alle prime scuole. Fatica indicibile; ingratissima, e da ributtare chiunque avesse avuto (ardirò dirlo) una fiamma minor della mia.
Tradotte dunque in mala prosa le due Tragedie, come dissi, mi posi all’impresa di leggere e studiare a verso a verso per ordine d’anzianità tutti i nostri Poeti primarj, e postillarli in margine, non di parole, ma di